Un breve excursus sulla storia e l’evoluzione delle batterie per auto elettriche. I prototipi di BEV dell’inizio del Novecento e la lunga parabola delle celle al piombo, tutt’oggi sul mercato nelle loro versioni più progredite, per arrivare all’innovazione del nichel-metallo idruro. La prima parte
L’auto elettrica non è una invenzione recente dettata dalla necessità di una mobilità sostenibile ed alternativa (e spinta dalla spietata concorrenza cinese, avanti in termini di innovazione automobilistica). Tra i primi prototipi di mezzi a quattro ruote non trainati da cavalli all’inizio del Novecento c’erano infatti vetture alimentate da batterie al piombo. Sembra incredibile, ma agli albori della storia dell’automobile si riteneva la trazione elettrica più conveniente, sicura e promettente, rispetto alle preistoriche macchine a vapore e soprattutto al motore a combustione interna.
Le prime auto elettriche comparse all’inizio del XX secolo
Poi la traiettoria dell’evoluzione dei trasporti ha accantonato le pionieristiche EV per puntare alla motorizzazione a benzina. Queste ultime permettevano allora una migliore autonomia, vista la tecnologia ancora non così performante delle batterie. E questo nonostante il fatto che i motori termici, almeno all’inizio della loro storia, fossero complessi da avviare, molto rumorosi (oggi come allora, i veicoli elettrici erano molto più silenziosi e non spaventavano i cavalli che trainavano le carrozze) e – sebbene a questo aspetto non venisse dato così tanto peso all’epoca – ben poco ecologici.
Le rudimentali EV si erano comunque diffuse con tanto delle antenate delle odierne stazioni di ricarica, come riportano i documenti dell’archivio del Museo dell’Automobile di Torino citati da Corriere.it. “A Manhattan già nel 1910 esistevano 44 stazioni di ricarica e alcuni centri commerciali prevedevano addirittura al piano terra delle zone di ricarica per vetture”, riporta infatti il sito. Anche in Italia si erano diffuse le auto elettriche, ma il settore sparì entro la fine del primi quindicennio del Novecento.
Intanto i motori a benzina erano diventati più affidabili, più efficaci ed efficienti. Si pensava addirittura che l’elettrico fosse una tecnologia senza futuro, letteralmente obsoleta. Colpa anche delle batterie che, come abbiamo citato, erano a piombo.
Oggi i progressi tecnologici delle celle e degli accumulatori stanno andando verso i desiderata degli automobilisti, che richiedono per la propria auto una autonomia tale da non lasciarli a piedi nel bel mezzo del tragitto. Difficile che ciò avvenga, e intanto si parla nel corso del decennio di batterie che possono durare per oltre 1.000 km, come quelle a stato solido promesse da Toyota. Pur in un mercato, quello delle BEV, attualmente alle prese con degli stop and go.
Ma come si è arrivati ad un tale progresso? Il sito Road and Track ha svolto un breve excursus sulla storia delle batterie per veicoli, che noi vi riportiamo in due parti.
La storia delle batterie per auto elettriche comincia dal piombo
Abbiamo detto che le batterie al piombo ricaricabili furono le pioniere di questa tecnologia. Inventate nel lontanissimo 1859 dal fisico francese Gaston Planté (ma diffusesi un decennio dopo), esse come le altre batterie convertono l’energia chimica in elettrica. Una trasformazione che avviene dentro una cella galvanica, dove troviamo una soluzione elettrolitica (composta da acqua ed acido solforico) e un catodo ed un anodo a fungere da elettrodi. Questi ultimi sono in piombo: il primo per la precisione diossido di piombo, mentre l’anodo è fatto di piombo spugnoso.
Tutt’oggi le batterie di questo tipo sono ancora vendute. Questo perché rappresentano una soluzione a basso costo e con un discreto riscontro in termini di efficienza. Tuttavia, esse pagano una bassa densità di energia rapportata al loro peso, ovvero circa 35 Wh (wattora) per kg. Siamo lontani quindi dalle avveniristiche batterie che garantiscono una migliore densità, come quelle al litio o allo stato solido.
Le prime batterie al piombo avevano al loro interno come elettrolita l’acido solforico liquido e richiedevano continui rabbocchi d’acqua. Oggigiorno abbiamo invece celle con soluzioni gelatinose per evitare perdite pericolose, oppure di tipo AGM (Absorbed Glass Mat), un tessuto in fibra di vetro bagnato di elettrolita. Prima di arrivare a questi traguardi, i primordiali veicoli elettrici erano più pesanti per via dei pacchi batteria e necessitavano di parecchi controlli. Oltre a presentare una autonomia piuttosto scarsa.
L’avvento delle batterie a nichel-metallo idruro
Una prima svolta si ebbe con Stanford Ovshinsky, ingegnere e scienziato statunitense che inventò la batteria al nichel-metallo idruro (NiMH). A differenza di quella al piombo, essa sfrutta per il catodo l’idrossido di nichel (Ni), come anodo una lega che assorbe l’idrogeno (MH) e come elettrolita l’idrossido di potassio.
In buona sostanza, queste batterie consentono una densità energetica maggiore rispetto alle controparti in piombo, ovvero circa 70 Wh/kg. E quindi maggiore potenza, stabilità e un ciclo di vita più lungo. E, non ultimo, una maggiore sicurezza data dalla presenza dell’idrossido di potassio al posto dell’acido solforico. Sebbene ci sia anche uno svantaggio, ovvero una certa sensibilità al calore e al surriscaldamento.
Le batterie NiMH sono entrate nell’uso quotidiano per dispositivi elettronici come laptop, smartphone ed auto ibride. In particolare, nel settore automobilistico questo tipo di celle hanno iniziato ad apparire alla fine degli anni Novanta.
Le applicazioni delle batterie NiMH nel mondo automobilistico
Diversi costruttori hanno adottato le NiMH. Pensiamo a General Motors per la pionieristica EV1, prima elettrica di serie comparsa alla fine degli anni Novanta. Oppure Toyota con il RAV4 EV, almeno sino a che Chevron nel 2001 ha acquistato il brevetto e fatto causa al marchio giapponese per violazione del copyright. In ogni caso, Toyota può utilizzare le batterie NiMH per le vetture ibride, fuori dalla contesa giudiziaria con la compagnia statunitense.
Ma questo tipo di batterie non era ancora sufficiente per garantire una popolarità tra i consumatori delle auto elettriche. E soprattutto consentire loro di avere dei mezzi con una dignitosa autonomia e con buone prestazioni.
Qui la seconda parte