Quali sono i motivi per cui la Cina, nel giro di qualche decennio, ha assunto un ruolo preminente nel mercato globale delle auto elettriche, partendo dalla domanda interna (incentivata a livello statale) sino alla conquista dell’estero tramite le esportazioni. Un’inchiesta del MIT Technology Review ci aiuta a rispondere
Nel dibattito che si è creato intorno al bando dell’UE delle vetture con motori a benzina e diesel dal 2035 si è fatta largo la voce dei contrari a questa regolamentazione, adducendo come motivo della loro opposizione il fatto che l’Europa possa rischiare di diventare dipendente da chi detiene una posizione quasi da monopolio nel settore dell’elettrico, ovvero la Cina.
Il mercato europeo si sta in realtà muovendo, ma su una cosa sussiste un fondo di verità, ovvero l’attuale dominio del gigante asiatico nella produzione ed esportazione dei veicoli elettrici. Ma quali sono i motivi che hanno portato la Cina a primeggiare? Abbiamo già affrontato il tema in precedenza su queste pagine, ma lo riprendiamo per vedere come siamo arrivati a questo punto.
I numeri della crescita cinese nel mercato delle auto elettriche
Un’inchiesta di MIT Technology Review riporta che, nell’ultimo biennio, “il numero di veicoli elettrici venduti ogni anno in Cina è cresciuto da 1,3 milioni a ben 6,8 milioni, rendendo così il 2022 l’ottavo anno consecutivo in cui il colosso asiatico è stato il più grande mercato mondiale per i veicoli elettrici”. E questo mentre gli Stati Uniti hanno venduto circa 800.000 auto elettriche nel 2022, mentre in Europa (e dopo una serie di cali di fila) ad ottobre 2022 si sono registrate 910.753 EV vendute, con la Germania a fare la parte del leone ed invece l’Italia fanalino di coda, perché al momento tra i consumatori domina l’incertezza legata al costo dell’elettricità, la presenza delle infrastrutture di ricarica (in fase di rapido ampliamento, anche se ancora non capillare nella Penisola) ed il prezzo di listino.
La Cina invece sta dimostrando come possa esistere un mercato fiorente delle vetture a zero emissioni, dotate di batteria e ricaricabili. Ed anzi, pare che la velocità impressa dal diretto competitor dell’Occidente sia talmente rapida da sorprendere molti analisti. Secondo i dati Statista Research Department, si prevede che entro quest’anno il Dragone produrrà 13 milioni di veicoli elettrici a batteria (BEV) e veicoli elettrici ibridi plug-in (PHEV), “più di qualsiasi altra nazione al mondo”. Inoltre, nel 2021 lo stock lo stock di veicoli elettrici in Cina era pari a circa 7,8 milioni di unità, ovvero “il triplo rispetto al 2018”. Ma come si è arrivati a questo punto?
Si sottolinea anzitutto il ruolo dirigista del Governo centrale nell’orientare il mercato nella domanda e nell’offerta, tra “generosi” sussidi, incentivi, agevolazioni fiscali e via dicendo. Le aziende, alcune sostenute direttamente dallo Stato, hanno investito nella ricerca e sviluppo, creando anche modelli a buon mercato (anche perché la Cina ha una posizione predominante nella componentistica essenziale e nella catena di approvvigionamento, come per esempio per le batterie e la raffinazione dei metalli che le compongono al loro interno) e che hanno attirato un pubblico anche giovane.
Perché la Cina decise di puntare sull’elettrico
Tutto parte dai primi anni 2000, quando il Dragone comprese di rivestire il ruolo di vaso di coccio tra quelli di ferro dell’automotive: in altre parole, i marchi nazionali asiatici potevano fare ben poco per battere la navigata concorrenza occidentale dei grandi colossi automobilistici, leader nelle vetture con motori tradizionali, e neppure avere qualche chance nei confronti del Giappone, che stava assumendo un ruolo importante sul fronte dell’ibrido, trainato da una realtà come Toyota che ha puntato molto su questa tecnologia.
Ergo, alla Cina non rimase altro che tentare la carta dell’elettrico per crearsi il proprio mercato partendo da una nicchia. Una scommessa che poteva risultare in un disastro, ed invece sta ripagando: anzitutto perché il resto del mondo deteneva ormai una posizione stabile con le auto a benzina o ibride, e riposizionarsi in una nuova tecnologia e un nuovo settore comportava dei costi in termini di barriere d’entrata, e in secondo luogo per cercare di risolvere il problema dell’inquinamento atmosferico che in Cina ha raggiunto livelli parossistici. E non dimentichiamo un altro aspetto fondamentale, ovvero emanciparsi dalla dipendenza del petrolio estero e la presenza di una catena di approvvigionamento, come abbiamo anticipato, già abbastanza sviluppata, a partire dalle materie prime a basso costo.
I primi investimenti e la svolta
E così dal 2001, il governo cinese ha spinto sugli investimenti partendo dal piano quinquennale (che rappresenta una sorta di legge di stabilità versione statalista e dirigista e a lungo termine) che prevedeva al suo interno la ricerca per le tecnologie alla base delle auto elettriche. Arriviamo quindi ad una svolta nel 2007, quando è stato nominato ministro della Scienza e Tecnologia Wan Guang, ingegnere automobilistico già al servizio di Audi in Germania per un decennio: per l’opinione generale, è lui ad aver dato l’impulso decisivo all’elettrico nella mobilità, dando il via alla crescita cinese nel settore.
L’inchiesta MIT passa in rassegna le politiche dettagliate portate avanti dal governo cinese, a partire dai sussidi statali erogati sin dal 2009 per aziende di veicoli elettrici affinché producessero auto private, ma anche taxi ed autobus pubblici, che arrivano a versare nelle casse delle società sino al 2022 (quando si è ufficialmente conclusa questa politica, sostituita da un sistema più orientato al mercato, ovvero il dual credit) una quantità di denaro pari ad oltre 200 miliardi di renminbi, ovvero circa 27 miliardi di euro.
Il risultato è che oltre la metà delle vendite globali dei veicoli elettrici è rappresentata da 6 milioni di auto a zero emissioni vendute in Cina, partendo dalle meno di 500 del 2009. Per non parlare poi delle esportazioni: ben 679.000 BEV nel solo 2022, con una crescita del 120% rispetto all’anno precedente.
Inoltre il governo asiatico ha sostenuto le aziende tramite contratti d’appalto per consentire loro di sopravvivere ed arrivare indenni al mare aperto del mercato globale. Ilaria Mazzocco, senior fellow in Chinese business and economics presso il Center for Strategic and International Studies, ha spiegato: “La Cina ha milioni di mezzi pubblici, autobus, taxi, ecc. Hanno fornito contratti affidabili per molti veicoli […] ed oltre all’elemento finanziario, ha anche fornito molti dati utili dai test per queste società“.
Ma non è finita qui: in uno scenario in cui per combattere l’inquinamento atmosferico in metropoli come Pechino le targhe automobilistiche sono state razionate per oltre un decennio, con tempi lunghissimi per poter circolare a norma con una vettura a benzina, queste restrizioni sostanzialmente decadono nel caso di acquisto di un’auto elettrica. Ed inoltre alcuni governi locali hanno lavorato in maniera sinergica con realtà aziendali per far crescere questo tipo di mobilità nei loro territori, come nel caso di BYD, diretta concorrente di Tesla e che ha contribuito ad elettrificare del tutto la flotta di autobus della città di Shenzhen.
Il ruolo di Tesla
Abbiamo nominato Tesla, e anche l’azienda di Elon Musk ha avuto un ruolo nella diffusione dell’elettrico in Cina: questo perché il governo ha distribuito i sussidi non solo alle aziende nazionali, ma anche a realtà estere. Anche questa è stata una buona intuizione, assieme a quella di sollecitare Tesla ad investire nel Paese costruendo impianti di produzione, come la gigafactory di Shangai, sorta in breve tempo anche grazie al sostegno pubblico, che non si è messo di mezzo e ha anzi spianato la strada alla multinazionale. Ed oggi quell’impianto è l’hub più produttivo al mondo per Tesla, visto che oltre la metà delle sue vetture consegnate nel 2022 proviene da lì.
E nel frattempo le altre aziende cinesi, più piccole, sono state spinte a tenere il passo del concorrente estero investendo in ricerca e cercando di offrire prodotti più convenienti e concorrenziali.
L’importanza delle batterie
Altro aspetto in cui la Cina eccelle nel mercato dell’elettrico sono le batterie, “che possono rappresentare circa il 40% del costo di un veicolo”, riporta il MIT. Anche qui, si è spinto molto sull’innovazione, come le battere al litio-ferro-fosfato (LFP) che presentano diversi vantaggi rispetto a quelle al litio basate su nichel, manganese e cobalto e che sono più usate in Occidente. Anche se qualcosa inizia a muoversi pure da noi, con Ford che negli USA ha deciso di rincorrere la Cina producendo da sé questo tipo di batterie.
Spicca il ruolo di un colosso del settore come la cinese Contemporary Amperex Technology Co. Limited (CATL), che è riuscita nel corso degli anni a migliorare un aspetto critico delle batterie LFP, ovvero la bassa densità energetica, riducendo il divario con quelle più tradizionali. Ed oggi il mercato globale sta rivalutando il litio-ferro-fosfato, come abbiamo visto.
Ancora, la Cina svetta nei processi di raffinazione di elementi come cobalto, solfato di nichel, idrossido di litio e grafite, avendo un saldo controllo nel settore, frutto di anni di ricerca ed investimenti e garantendosi così un vantaggio che potrebbe ancora durare a lungo. Come ha spiegato Max Reid, analista senior di ricerca in veicoli elettrici e servizi di catena di fornitura di batterie presso la società di ricerca globale Wood Mackenzie, “Le batterie per veicoli elettrici di fabbricazione cinese […] non solo giovano di prezzi più ridotti, ma sono anche disponibili in quantità molto più elevate perché la capacità di produzione è stata sviluppata in Cina e continua ad esserlo”.
Il mercato elettrico cinese oggi e la risposta del resto del mondo
Come risultato di tutti questi aspetti, la domanda interna cinese è a livelli altissimi, e lo dimostrano i dati della società di consulenza statunitense AlixPartners: oltre la metà degli intervistati cinesi nel 2021 reputava come loro prossimo acquisto un’auto elettrica, ”la percentuale più alta nel mondo e due volte la media globale”.
Sono spuntate molte aziende come “BYD, SAIC-GM-Wuling, Geely, Nio [nota al resto del mondo anche per la sua presenza con un team in Formula E, ndr], Xpeng e LiAuto”, con le prime tre che dai motori tradizionali hanno colto la palla al balzo dell’elettrico. E alcuni di questi marchi hanno acquisito pure una reputazione tale da non farli sfigurare rispetto alla concorrenza estera.
Le previsioni per il mercato cinese dei veicoli elettrici sono di un passaggio da un valore di 124 a 799 miliardi di dollari un decennio dopo (per il periodo 2018-2028). Entro il 2025, inoltre, il governo cinese ha annunciato di posizionare un numero di stazioni di ricarica che possa coprire le esigenze di 20 milioni di vetture elettriche.
Come rispondere a questa colossale offensiva nel settore? Se è vero che Stati Uniti ed Europa hanno le potenzialità industriali per potersi misurare nel mercato dell’elettrico, grazie a capacità tecnologica e catene di approvvigionamento, la sfida nasce dalla volontà di poter sostenere, a livello anche statale, questo settore. Negli USA abbiamo l’ambizioso Inflation Reduction Act, lanciato lo scorso anno e su cui l’amministrazione Biden sta scommettendo molto per favorire il rilancio degli Stati Uniti nelle politiche verdi e nella mobilità sostenibile.
Bisogna anche considerare le capacità di altri Paesi come quelli in via di sviluppo e che non hanno una tradizione automobilistica forte come quella europea o statunitense, ma l’esperienza della Cina potrebbe rappresentare anche per loro un esempio.
Ora la Cina si sta confrontando con le esportazioni, cosa che comporta anche un approccio diverso in termini di comunicazione e marketing, oltre a doversi adattare a standard tecnici diversi. Come ha spiegato Mazzocco (CSIS): “Ritengo che diamo per scontato che un’azienda come Toyota o Honda possano essere a loro agio nel navigare in mercati diversi, ma ci sono voluti decenni di esperienza per arrivare a questo punto, e non sempre è stato rose e fiori per loro”.
Altro aspetto critico è la volontà dei Paesi occidentali di voler di tutelare le proprie industrie locali, guardando all’avanzata cinese con sospetto (soprattutto per motivi di sicurezza nazionale), mentre lo stesso Dragone cerca via d’uscita ad un mercato interno via via sempre più saturo. E quella via d’uscita potrebbe essere il resto dell’Asia la cui domanda di veicoli elettrici è alla fase aurorale: è il caso ad esempio dell’Indonesia, interessata agli investimenti cinesi per poter mettere in piedi fabbriche di produzione di auto elettriche.
Ricordiamo che infine è entro il 2040, cinque anni dopo rispetto all’UE, che la Cina prevede di mettere al bando la vendita di veicoli con motori a combustione interna.